
C’era una volta una Città … beh, c’è ancora, anche se un po’ cambiata. Ma una volta - ai tempi di Napoleone – condivideva il titolo di “città” solamente con una quarantina di comuni italiani. Infatti già a quel tempo poteva vantare scuole, un’accademia umanistica, numerose chiese, servizi sanitari, eccetera, eccetera. Al punto che due intellettuali gesuiti del posto (uno si chiamava Mauro e l’altro Stefano) si omaggiavano dell’appellativo di “Pericle in questa Atene”; salvo poi ricorrere all’immagine di “Sparta” quando le truppe del solito Napoleone rompevano … l’incantesimo.
La Città, da sempre libera dai latifondi e priva di una vera classe nobiliare, aveva allora circa 8.000 abitanti ed era favorita da una solida economia basata principalmente sull’agricoltura e sulla lavorazione della seta; una prosperità che in seguito fece nascere anche diverse opere di beneficenza.
Questa “Età dell’oro”, per farla breve e rubando lo schema di Esiodo, continuò ad illuminare anche la successiva storia locale: le età dell’argento, del bronzo e del ferro (alle quali in questa sede si propone di aggiungere la fase di una materia ancor meno pregiata). Tant’è vero che verso la fine del Novecento qualcuno per descrivere la nostra Città ricorreva alla metafora iperbolica di “piccola Atene”, senza troppa originalità, dal momento che la stessa figura retorica veniva usata da tempo per Sabbioneta, Treviso, Pietrasanta ed altri luoghi.
Poi venne l’ultima era, che coincise con l’ascesa al potere di nuovi dominatori. Questi, al grido druidico “R. ladrona”, “P. libera”, promettendo sfracelli, installarono il loro principe che, piano piano, volle far conoscere alla Città un periodo che non aveva mai vissuto: quello feudale.
Allora il principe, circondato dai suoi fedelissimi ed affiancato dal suo luogotenente, diede il via al suo programma.
Tanto per cominciare, in omaggio alla sfericità dello scudo celtico, sostituzione di tutti gli incroci con tante belle rotonde; talmente belle che dovette vendere il patrimonio immobiliare della Città.
Poi lanciò una serie di grandi progetti chiamati “Poli”, poli di qua … poli di là. Ma, siccome i soldi non bastavano, li lasciò disegnati sui tabelloni e si limitò a tradurre in ostrogoto il nome della Città sui cartelli d’ingresso.
C’è da dire che inizialmente voleva cacciare dal feudo tutti i forestieri, ma poi voleva anche aumentare la popolazione di 7.000 persone, per riempire le nuove case che i suoi amici dovevano costruire. Sta di fatto che in poco tempo i forestieri, invece di sparire, raddoppiarono.
Nel frattempo, per tenere fede al grido di guerra, estese i propri confini e posizionò una chiappa sulla Città-feudo e l'altra proprio al centro di “R. ladrona”.
Infine, con l’occasione della bega sullo spostamento mercato, sistemò anche l’antico Consiglio dei Venti (inteso come numero): da quel momento i suoi cortigiani ebbero la facoltà di usare le deliberazioni dell'antico Consiglio come carta igienica.
Beppe Vavassori
P.S.: Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti non è puramente casuale, perché è auspicabile un risveglio dei "mandarini della Piccola Atene" (copiato dal titolo di un romanzo di Enzo Fontana su Treviso), prima che il sonno della ragione generi mostri (tanto per finire con un'altra citazione).
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